Era il 14 settembre 1998, e un dispaccio da New York riporta le parole dell’unico Clinton riuscito a diventare Presidente degli Stati Uniti: “Le questioni che io, Blair e Prodi affronteremo sono cruciali: come estendere i benefici dell’economia mondiale a tutti, e come far diffondere la democrazia di pari passo con le riforme economiche.”. Erano i tempi dell’“Ulivo Mondiale”, in uno dei suoi momenti più alti; era il tempo dell’affermazione della globalizzazione (dovuta, anzi scatenata proprio dai provvedimenti finanziari di Clinton e dall’ingresso della Cina nel WTO); era il momento in cui si celebrava la definitiva vittoria dei paesi liberi rispetto al comunismo.
A oltre vent’anni di distanza non si può certo dire che Clinton, Blair e Prodi non vedessero già i problemi della globalizzazione: da un lato la crescente distanza tra ricchi e poveri nelle economie occidentali, attraverso lo sgretolamento del ceto medio e dall’altro l’implosione della democrazia nel resto del mondo (ascesa e caduta della primavera araba nel 2010-11, oltre ai fallimenti nel Medio Oriente).
Oggi vediamo che la globalizzazione, intrecciata alla digitalizzazione, ha creato dei quasi-monopoli prima nemmeno immaginabili: com’è definibile il potere di facebook che ha 2,6 miliardi di utenti attivi al mondo e che potenzialmente può indirizzare qualunque flusso di informazioni? come definire il potere d’influenza di Google che ha 18,8 miliardi di search al giorno? Come definire il potere d’influenza di alcuni fondi d’investimento che muovono risorse superiori al pil della maggior parte dei singoli paesi? D’accordo: si tratta di un potere senza sovranità, perché nessuno di loro ha assunto potestà statali (discorso opposto sarebbe da fare per Cina e Russia). Però qui c’è già il problema enorme di come bilanciare sovranità e potere nei paesi occidentali: gli stati hanno ancora sovranità, ma hanno sempre meno potere effettivo sulla vita delle persone, delle imprese e di tutto il resto; i big player digitali hanno potere crescente su ogni aspetto della vita individuale e collettiva, ma non hanno sovranità
La risposta attuale più “efficace” è quella degli stati autoritari, come la Cina e la Russia, dove siamo davanti a una convergenza, non senza conflitti (vedi Alibaba in Cina), tra potere della tecnologia e potere della politica. Siamo davanti a quello che potremmo definire capitalismo di stato, o capitalismo a trazione politica, insomma a una formula in cui il conflitto tra i due poteri si stempera nella commistione tra le due entità. È la soluzione?
D’altra parte, se guardiamo a casa nostra (l’Occidente) vediamo che l’epidemia ha creato molte nazionalizzazioni, nella forma e nei fatti, di grandi imprese, un po’ dovunque dalla Germania agli Stati Uniti, dove alcune grandi aziende sopravvivono solo grazie al contributo federale. In Italia abbiamo Alitalia, Ilva, rete fibra ottica, e altre ancora, oltre a MPS nazionalizzata già prima dell’epidemia. Questa tendenza c’è. È la soluzione?
Se questa è la soluzione, magari non autoritaria o dittatoriale, ma comunque a primazia statale, che fine fanno i liberali? O meglio, che cosa significa essere liberali? e qual è oggi la possibile piattaforma di un liberale? È possibile andare oltre le petizioni di principio: simpatia verso la primazia della persona sullo stato; totale libertà di parola, di stampa, ecc. senza affrontare con coraggio i nodi aggrovigliati entro cui si trova l’opzione liberale che di principio, almeno nel mondo occidentale, è condivisa da tutti, ma che non ha più mordente e viene continuamente bypassata dalla forza inerziale della tecnologia?
Forse, però, prima di chiedere come dev’essere il mondo, forse è bene chiedersi come sta il proprio mondo. Detto in altre parole: quale auto-critica deve farsi il mondo liberale, e in particolare il liberalismo di sinistra, che è stata la novità più significativa di questo universo, ma anche quello che ha avuto meno risposte all’avanzare degli eventi negativi della globalizzazione. Ancora prima di Bill Clinton, ci aveva pensato, nel 1991, il filosofo Pierre Hassner, il quale nell’euforia della “fine della storia”, successiva alla caduta dell’Unione Sovietica, suggeriva che il bisogno di comunità e di identità da un lato e di uguaglianza e solidarietà dall’altro sarebbero ritornati. E così hanno fatto.
Le radici del populismo hanno proprio questi nutrienti. Le persone non sono atomi che girano liberamente nel mondo, ma hanno appartenenze, valori, storia, in una parola una identità che non può essere cancellata dall’universalismo della globalizzazione, né tantomeno attribuendo primazia al multiculturalismo. O almeno è un processo da condurre in maniera graduale, calibrata, misurata. Il senso della nazione non può essere cancellato. D’altra parte, il primo atto istintivo di tutti gli stati, allo scoppiare dell’epidemia, è stato quello di chiudere i propri confini. Poi, quando il pericolo è stato in qualche modo razionalizzato, è arrivata la cooperazione, ma l’istinto primitivo è stata la centralità dei confini nazionali, e addirittura, nella versione italiana, regionali. Perciò le identità non sono una sovrastruttura culturale residuale, ma sono la linfa vitale del vivere collettivo.
C’è poi l’enorme questione delle disuguaglianze in crescita. A fine 2020, mentre il mondo ha visto crollare il reddito nazionale dovunque (da noi il 10%), i 500 uomini più ricchi della terra (Bloomberg Index) hanno incrementato il loro patrimonio di 1.800 miliardi di dollari, praticamente il loro incremento di ricchezza vale l’intero pil italiano. Ha molto senso tutto questo? Non ci sono solo i padroni dei big player digitali, perché Bernard Arnault (settore del lusso), l’uomo più ricco d’Europa, ha accumulato 76 miliardi e il più ricco imprenditore asiatico agisce nel settore delle acque minerali.
La sensazione, volendo cercare necessariamente una motivazione tranchant per interpretare questi successi, oltre alla soggettiva innegabile bravura imprenditoriale, è che sia il frutto di monopoli di qualche tipo e di nuova natura. Allora, qui si apre una nuova prospettiva per i liberali, perché andando a rispolverare uno dei principi cardine del liberalismo, troviamo la lotta ai monopoli. L’anti-trust è nato in America, non in Unione Sovietica. Perciò più che di nazionalizzazioni, è meglio avere nuove regole anti-monopoliste, e un ritorno di sovranità (dei cittadini, non dello stato, anzi dello stato per restituire potere ai cittadini) rispetto all’uso dei dati.
Nel momento in cui facebook è lo strumento centrale della formazione della diffusione delle idee politiche (e non solo), cioè assume un ruolo di rilievo pubblico, come fa a non essere compreso dentro le norme regolative democratiche? Come fa a non essere un editore, quando può decidere cosa e a chi far vedere ciò che viene pubblicato? e come fa questo algoritmo a non essere conosciuto? o almeno che i criteri che lo guidano non siano resi pubblici?
Sicuro che il liberalismo di sinistra non debba dire nulla sulla “hereditary meritocracy”? Sul sistema educativo che non è più un ascensore sociale per tutti, ma è nettamente diviso tra scuole abbordabili che non formano abbastanza, e le super-scuole, frequentate soprattutto dai figli dell’attuale classe dirigente, che producono conoscenza e creano inossidabile continuità con la precedente classe dirigente?
E così sicuro che non debba fare (e dire) nulla per alleviare il risentimento delle persone che non hanno un titolo di studio o una posizione sociale elevata e che si vedono disprezzate da coloro che li hanno? Questa disuguaglianza di valore (o di “disparity of esteem”, come la chiama Timothy Garton Ash) ha bisogno di una nuova forza morale che assuma l’idea che ogni persona, qualunque persona, anche se non ha studiato merita tutta la considerazione e che le idee popolari non sono, per definizione “deplorevoli”.
La libertà dell’individuo, della persona, è un principio fondamentale liberale (e cristiano) e questo va reinterpretato nell’era in cui gli algoritmi, con la loro capacità predittiva, s’apprestano a governare il mondo. E gli algoritmi sono regole senza eccezioni. Sono la capacità, ammirevole, meravigliosa, di rendere la qualità per quantità, cioè rendere in maniera piana quello che il mondo ha creato in maniera confusa, contraddittoria, erratica. Ammirevole, meravigliosa, ma anche ingannevole, perché la libertà, il principio generativo di qualunque idea liberale, è proprio la possibilità che il mondo vada secondo quanto ogni persona decide che debba andare, non secondo ottimizzazioni astratte senza paternità e senza legittimità.
Il grande avvenire delle idee liberali non è dietro alle spalle, ma davanti a noi, perché le fantastiche novità della scienza devono trovare idee nuove che le comprendano e le governino. Si tratta di ritornare alle radici liberali e alimentarle con coraggio, dosando, ad esempio, conservatorismo e innovazione. Era il 14 settembre del 1998, forse era troppo presto, speriamo oggi non sia troppo tardi.