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    Marketing: Il nuovo "Metodo Sociometrica" di dare il nome ai prodotti

    Marketing: Il nuovo "Metodo Sociometrica" di dare il nome ai prodotti

    Dare un nome ai prodotti è sempre stata una grande sfida del marketing. Qui il “Metodo Sociometrica” che considera non solo il mercato di riferimento in senso stretto del prodotto, ma il sentimento collettivo, per dare al prodotto l’occasione di entrare in sintonia con la società.

    Impossible burger: non si capisce cos’è, ma il nome è bellissimo. Non scivola via, anzi, ci si domanda, appunto, cosa sia questo hamburger: incuriosisce, sorprende, apre un mondo a cui non abbiamo ancora accesso.

    È la scelta dei nomi come strategia di marketing, certamente non nuova, ma che adesso si va trasformando in qualcosa che comprende, oltre al marketing, la psicologia, la linguistica e, soprattutto, la scienza dei comportamenti di massa. D’altro canto, se l’avessero chiamato: “hamburger vegetale”, o anche “veggy hamburger”, o peggio “hamburger di verdure” o “senza carne”, una tristezza infinita ci avrebbe avvolto inesorabilmente (includendo fors’anche i vegani), uccidendo ogni nostro interesse. Invece, Impossible Burger è attraente, intrigante, desiderabile.

    Conosciamo la scienza del “naming”, per cui un nome commerciale dev’essere semplice, significativo, simpatico, usabile per più prodotti ecc. ma la novità è un’altra: nessun nome può oggi prescindere dall’obiettivo di entrare in scena come entra in scena l’ultimo film, l’ultimo libro o l’ultima serie televisiva, cioè conquistando la sua porzione di significatività dentro il flusso generale di creazione di senso che arriva dall’alto e dal basso e da ogni parte della società, perciò anche dai consumi.

    Andiamo con ordine, però. C’era una volta il mondo in cui il nome dei prodotti rispecchiava più o meno la loro funzione, cioè il loro valore d’uso. È un mondo che è durato a lungo e, per certi versi, è vivo ancora. Siamo passati poi all’esplosione della “creatività”, cioè all’autonomia del segno – come potremmo dire – in cui il nome, anche inventato, crea di suo, a prescindere dal prodotto, una identità.

    Ad esempio, pensiamo agli anni intorno al 2010, quando tanti marchi avevano la “&” nel loro nome. La lista è lunghissima. Cosa dava di vantaggio quella “&”? Un accento di carineria e anche una cosa fatta alla buona (eravamo due soci e abbiamo messo insieme i nostri nomi…); un’idea di sartoria, di boutique, di cosa fatta con cura e attenzione. Tanto questa onda è imperversata, che alla fine si sono usate parole qualunque al posto di nomi e cognomi e tuttavia l’effetto della “&” non era per questo minore.

    Oggi siamo passati a una nuova fase: i nomi devono essere più “conversazionali”, più amicali, come “Hello qualcosa”, “Ciao qualcosa” e così via. Siamo nell’era dei social, perciò la comunicazione dev’essere peer-to-peer, cioè tra pari: in fondo non siamo tutti amici su facebook? Per altro bisognerà aggiornare un po’ i nomi, perché l’intelligenza artificiale con i loro servizi vocali (Alexa, Siri, Hey Google), che ascoltano le nostre conversazioni, e sono pronti a proporci sul telefono il prodotto appena citato nella conversazione, fa passare tutti i brand sotto le forche caudine della chiarezza e della comprensibilità. Nomi strani, tortuosi o anche troppo generici finiranno con l’essere ignorati dai software che elaborano quanto arriva dagli speakers. Immaginate integratori di calcio le cui pubblicità arrivano perché la parola calcio risuona nella stanza… (ok, l’analisi semantica risolverà anche questo problema, però per adesso c’è). Un’altra tendenza di oggi è quella di suscitare “false radici” proprio attraverso il nome, attitudine non recentissima, ma che adesso è diventata di massa. Citiamo l’esempio forse più clamoroso, quello di Haagen-Dazs, che nel contenuto del nome, nel lettering e nei ghirigori intorno al nome suscitano immediatamente l’idea che si tratti di un prodotto tedesco (o tirolese, o al massimo olandese) mentre viene da Brooklyn. D’altro canto chi si fiderebbe di un gelato newyorkese? Il trionfo di Wittgenstein si è compiuto! La parola si è staccata dal suo contenuto per sempre.

    La nuova filosofia del naming, o almeno quella che utilizza Sociometrica, è fondata su due pilastri che sembrerebbero contraddittori, ma sono oggi il mix perfetto per creare nomi di successo per i prodotti commerciali (e non solo per loro): il legame strettissimo con le strategie aziendali da un lato, e il carattere aspirazionale/simbolico dall’altro. Un nome può essere dirompente o descrittivo.

    Nel primo caso si usa quando un’azienda non è sicura del suo prodotto, o perché entra in un mercato nuovo, e vuole perciò distanziare al massimo il prodotto dalla casa madre; o perché entra in un mercato affollato, dove i nomi necessariamente finiscono per assomigliarsi tutti e perciò bisogna averne uno completamente nuovo. Può essere anche solo descrittivo se è in continuità con gli altri prodotti aziendali, perciò niente fantasie e creatività, ma rassicurazione che si tratti di un altro figlio della stessa famiglia (di successo). Perciò non esiste l’autonomia del segno, perché il nome deve sempre incorporare o essere incorporato dentro le strategie aziendali.

    In un tempo in cui tutti i prodotti si assomigliano e ogni innovazione in pochi mesi si diffonde a molti prodotti, la scelta del nome diventa ancora più importante. Sicché la domanda cruciale diventa: perché devo comprare proprio questo prodotto? Qual è il motivo di fondo, anzi il motivo profondo, il movente che mi porta a scegliere, fra decine o centinaia prodotti, proprio questo?

    Piccola digressione. È noto che siamo da tempo nell’era del marketing relazionale: le aziende hanno un rapporto con la loro clientela non solo per il tempo dell’acquisto, ma dopo l’acquisto e persino in assenza dell’acquisto, o meglio nella pausa tra un acquisto e l’altro (a seconda dei prodotti). L’atto d’acquisto non esaurisce la relazione, ma è solo un momento di picco, come nelle amicizie si è amici sempre, anche se ci si incontra solo di tanto in tanto. Gli incontri ci sono in quanto c’è l’amicizia, l’acquisto c’è in quanto c’è la relazione.

    Il brand, il prodotto, l’azienda devono entrare in una sintonia, anzi in una furtiva complicità con il cliente. Su che cosa? Su ciò che li tiene insieme, su un legame addirittura più implicito che esplicito delle ragioni per cui l’uno produce quel bene e l’altro consuma quel bene. Qual è il loro “perché” che va oltre le caratteristiche funzionali del prodotto e il suo valore d’uso? Cosa li lega?

    Può essere naturalmente lo status socio-economico, e saremmo ancora dentro un crinale già noto, ma può essere anche una concezione del mondo (in senso lato, leggero, partecipe) o di rispecchiamento della propria realtà psicologica. Ikea nel vendere i suoi mobili vende anche l’idea che non bisogna spendere molto per essere cool; che costruire da sé i mobili aggiunge artigianalità al prodotto seriale; che se ognuno fa un po’ di più per sé, il mondo sarà migliore. Il brand prima di conquistarti sul prodotto ti conquista sul senso finale del prodotto, sulla sua più profonda ragion d’essere e sul significato che vi è correlato. E chi se ne importa se i clienti di Ikea sono infiniti, l’importante è che lo pensi ciascuno per sé. Oppure pensiamo alla magia della parola bio, che a suo modo ha una semantica meravigliosa (bio=vita); la semplicità (come parola e come senso del principio unitario di ciascun essere vivente); e lo stile di vita (se scelgo bio, scelgo una visione del mondo, o almeno della mia persona). Non si tratta di un disciplinare, ma di una scelta di vita. Appunto.

    Il nome in qualche modo deriva dal futuro, viene dal mondo che si vorrebbe avere, dal mondo che si vorrebbe affermare, perciò la scelta del nome di un prodotto ha molto a che fare con la comprensione delle correnti di pensiero e di idee più profonde della società. Tenere insieme l’unicità dell’azienda (perché ogni prodotto viene da una singola azienda specifica) e l’universalità del mercato (anzi della collettività, che va oltre il mercato) dentro cui quel prodotto viene gettato è quel che serve per trovare il nome giusto. Il nome stabilisce la sintonia (o meno) tra azienda e società, quella caratteristica che poi, alla fine, decide se si tratta di un’azienda vincente. Cioè necessaria qui e ora.

    Bio

    Antonio PreitiEconomista. Docente all’Università di Firenze. Master in Economia dello Sviluppo, Laurea in Scienze Economiche e Sociali. E’ cresciuto al Censis, responsabile di Sociometrica, è consulente strategico.

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