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    Il poker, i bari e la comunicazione politica al tempo dei social

    Il poker, i bari e la comunicazione politica al tempo dei social

    Le fake news stanno ai social, come i bari stanno al poker: al bando i bari, ma bisogna imparare il poker. La questione più intrigante è per quale maledetta ragione il poker proprio non lo si vuole imparare. Cominciamo dal poker, vediamo i bari, e poi ci inoltriamo nel campo minato dell’impossibilità (asserita, non dimostrata) di giocare a poker.

    Il poker è la nuova fisica sociale che ridisegna i comportamenti di ciascuno di noi, crea la psicologia collettiva e stravolge il modo in cui le idee politiche si affermano o declinano.

    Cominciando dai numeri, sempre essenziali. Chiunque si occupi di politica non può trascurare quello che fanno 33 milioni di italiani su internet. Soprattutto non può trascurare i 28 milioni che ogni santo giorno dedicano la media di un’ora e 51 minuti per scrivere, leggere, postare e guardare foto, video e quant’altro viene in mente. Una quantità di tempo pazzesca! Solo la tv occupa più tempo, e neanche troppo di più. Insomma, sta succedendo (è successo) qualcosa di epocale che influenza qualunque (o quasi) nostra azione quotidiana, da quelle più personali a quelle pubbliche e perciò politiche. A quelli che dicevano (e dicono) “poi c’è la vita vera”, sappiate che questa è vita vera.

    La chiave di tutto è facebook. Ancora numeri. Sono 25 milioni gli utenti attivi in Italia, cioè che leggono, scrivono e distribuiscono like ogni giorno che Dio manda in terra. Twitter è fermo a 2,5 milioni, mentre Instagram è in grande crescita (19 milioni) con aspetti intriganti di cui si dice poco (ma qui non ne abbiamo il tempo). Su Facebook la visita media dura 11 minuti. Chi sa di queste cose sa benissimo che trattenere per oltre dieci minuti una persona su un sito è un’impresa ardua, figuriamoci sulla lettura. (Questo articolo audacemente gioca al limite).

    Anche se non sono ancora chiari i nessi causali tra uomo e intelligenza artificiale, l’intreccio è indistricabile; ad esempio: cerchiamo sul cellulare l’indirizzo del ristorante già scelto o lo scegliamo (solo) tra quelli proposti dall’app? leggiamo una cosa perché siamo andati a cercarla o (solo) perché ci viene proposta più facilmente? siamo dentro un flusso d’informazioni perché abbiamo scelto di esserlo, o siamo (solo) il target ideale dell’algoritmo perfetto?

    Oggi l’intelligenza collettiva, la “vox populi”, o la saggezza della folla, come si dovrebbe dire nell’epoca dei social, non si forma con un flusso di idee dall’alto, ma è il frutto in tempo reale dell’impatto di milioni e milioni di persone che imparano a vicenda e si influenzano a vicenda; utilizzano anche i flussi dall’alto, ma li re-interpretano secondo la loro prospettiva (anzi, i loro pregiudizi) e li gettano nel flusso vorticoso di commenti, like, ecc. che si autoalimentano, se il messaggio ha successo, o si perdono nel nulla, se non vengono agganciati dal flusso. Non siamo più (semmai lo siamo stati) singoli individui che arrivano a decisioni ponderate e autonome, ma siamo il frutto del nostro apprendimento sociale, di ciò a cui siamo esposti. Il punto è che mentre prima le connessioni erano legami sociali, adesso sono legami emozionali. (Sulla circostanza che le emozioni non siano fuochi fatui, ma incorporino valori, si veda Antonio Damasio, forse il più grande neurologo di sempre).

    Torniamo al digitale. La psiche di chi frequenta questo mondo ha due polarità: una è la scoperta (vado su internet e comincio a cercare quello che non conosco e quello che mi induce curiosità); l’altra è il coinvolgimento (bisogno di trovare – o ritrovare - persone che siano capaci di coinvolgermi, di dare un senso alla mia quotidianità o qualche volta anche oltre la quotidianità). Il secondo gruppo è nettamente più grande del primo.

    Qui arriva l’algoritmo probabilistico di facebook, una sorta di scala delle probabilità che date singole mie caratteristiche e scelte (talvolta basta appena la foto del profilo, se siamo nella psicometria) è capace di creare connessioni sempre più stringenti, legate a un livello sempre più profondo, fino a creare tribù autoreferenti, inossidabili e bisognose di condivisione. È il tipo di target che ogni inserzionista pubblicitario sogna. La competizione sul tempo/attenzione è la vera competizione di internet. I migliori e più meravigliosi talenti di questa generazione combattono letteralmente per un click in più.

    Non ci sarebbe in verità neppure bisogno dell’algoritmo, perché il pubblico si autoseleziona da sé, e dà vita ai gruppi chiusi. A quel punto la tribù è fatta. In questi gruppi si parla un linguaggio confidenziale, come chiunque farebbe a casa sua con gli amici più stretti, dicendo anche l’indicibile. Siamo quello che siamo quando pensiamo che nessuno ci stia guardando (Christian Rudder, Dataclisma).

    Non c’è niente di diabolico (ma tanta intelligenza), perché il modello di business del mondo digitale è semplice: bisogna far stare la gente più tempo possibile sulla piattaforma. Perciò più il gruppo mi piace, più lo frequento. Più lo frequento, più lo popolo di contenuti e così gli altri. Stare tanto tempo in quello spazio mentale e reale (dove ci metto attese, emozioni, pensieri, persino speranze) influenzerà decisamente la mia vita.

    Questa è la fisiologia, ma le fake news? Bisognerebbe ripetere a memoria Kahneman (Pensare, veloce e lento) per capire davvero questo tema, a parte le responsabilità penali di chi divulga il falso. Perché c’è una zona grigia densissima, in cui il falso non è letterale e palese, ma semplicemente ammiccante, o più spesso prende una parte per il tutto, cioè il significato di un aspetto per il significato del tutto. Il punto chiave è la verosimiglianza, la credibilità, o meglio la coerenza del messaggio con i propri pregiudizi.

    Ad esempio, il messaggio che ha avuto il maggiore successo nella campagna presidenziale americana è la foto di Trump con Papa Francesco, una semplice “foto opportunity”. La fake news diceva che il Papa aveva dato il suo endorsement contro Hillary Clinton. Notizia facile da verificare. Però la comunicazione subliminale (e talvolta esplicita) è stata: è ovvio che il Papa sostenga Trump, perché Hillary è abortista, c’è bisogno di verificare? Insomma vincono le fake che, in qualche modo, veicolano luoghi comuni (anche se falsi); però resta la domanda: come hanno fatto a diventare luoghi comuni?

    Bisognerebbe giocare a poker molto bene non solo per respingere le fake, ma soprattutto per convincere le persone della bontà delle proprie tesi. Il principio sovrano della comunicazione sui social media è però il peer-to-peer, cioè la comunicazione tra pari. Non è il giornale: io scrivo, gli altri leggono; non è la tv: io appaio, gli altri vedono. Non è in sostanza una comunicazione da uno a molti, ma da a uno a uno. (Per questa ragione vince facebook su twitter, che è ancora -sostanzialmente- da uno a tutti). In sostanza non è pedagogia, è costruzione collettiva dell’opinione.

    Ci vuole grande umiltà, perché i discorsi ex cathedra non suonano bene, perciò anche se io sono un luminare della scienza e chi mi risponde ha letto meno di un libro nella sua vita, devo avere la pazienza di convincerlo con gli argomenti. Devo trovare l’ago giusto che fa scoppiare la bolla auto-referente, quando la trovo. Devo capire che i social sono un mondo nuovo, com’era il cinema rispetto alla fotografia, la televisione rispetto alla radio. Ogni media ha il suo linguaggio. E se è vero che i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo, non capire il linguaggio dei social impedisce di capire quel mondo.

    La novità è che prima parlavano solo pochi (formalmente deputati a parlare) e oggi parla chi vuole. Potrebbe anche essere una bella novità. Altrimenti dovrebbe parlare solo chi è autorizzato?

    Il demone però si nasconde ancora da qualche altra parte, perché sembra che i sentimenti delle persone comuni non meritino attenzione; che un tema diventi degno solo che c’è una persona nota come protagonista (si veda il caso metoo); che l’ideologia (da affermare) sia più importante del vissuto delle persone. La bellezza del pensiero democratico è tutt’altra: sta proprio nel considerare il valore delle persone a prescindere dalla razza, dal sesso, ma anche dal livello d’istruzione e da qualunque gerarchia (Walt Whitman, “Libertà: camminare liberi e non avere nessuno superiore”). A pensarci bene anche la democrazia ha questo “difetto”: che considera il voto di ciascuno uguale a quello di chiunque altro. Il poker è la democrazia.

    Bio

    Antonio PreitiEconomista. Docente all’Università di Firenze. Master in Economia dello Sviluppo, Laurea in Scienze Economiche e Sociali. E’ cresciuto al Censis, responsabile di Sociometrica, è consulente strategico.

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