Grazie alla procedura digitale, con la firma elettronica, in 3 giorni sono state raccolte 330 mila firme per abrogare il reato di coltivazione per uso personale della cannabis e, con la stessa velocità, sono state raccolte quelle per l’eutanasia. Si presenta così la SPID Democracy, che con la facilità e l’immediatezza con cui oggi è possibile firmare per i referendum, apre nuove prospettive e nuovi timori.
Di qui l’idea di alzare il numero necessario di firme, e allo stesso tempo di abbassare il quorum del referendum dal 50% (+ 1) degli aventi diritto al voto, al 50% (+ 1) dei votanti alle ultime elezioni politiche. Misure ragionevoli; però, c’è un però.
Il però sta nella circostanza che se, in qualunque modo, si creano, si alimentano e si definiscono nuove forme di partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese, questo è senz’altro un bene. Anzi, potrebbe essere l’antidoto al declino della partecipazione politica dentro i partiti e con i partiti. La nuova fisica sociale passa attraverso gli strumenti digitali (e come potrebbe essere altrimenti, visto che la nostra vita passa attraverso gli smart-phone?) e perché mai la politica non dovrebbe avvantaggiarsene? Non certo per creare un “populismo digitale”, di cui nessuno ha bisogno, ma per condensare in maniera ordinata le istanze politiche che arrivano dal basso. L’idea di una democrazia partecipativa, deliberativa, che metta in grado i cittadini di potersi esprimere sulle questioni politiche è un obiettivo fondamentale e molto antico. Adesso gli strumenti digitali rendono possibile quello che un tempo era impossibile. Perciò una riflessione su come la digitalizzazione possa rafforzare la democrazia è la benvenuta.
Facciamo un passo indietro nel tempo remoto e altri nel tempo più prossimo dell’ultimo ventennio. Nell’antica Grecia la democrazia era insieme diretta e deliberativa: decidevano tutti e quel che decidevano era già esecutivo. Naturalmente la polis greca era composta da persone già selezionate, e da un numero – visto dall’oggi – molto modesto. Tutto il resto della storia democratica è una storia di democrazia rappresentativa, non diretta. Eppure, negli anni a noi prossimi non sono mancati esempi (in Svizzera tradizionalmente, e in California con maggiore creatività di metodi) di interventi parziali di democrazia deliberativa, con i cittadini che si esprimono su un tema specifico, o addirittura decidono direttamente sul tema).
Il maggiore teorico della “Deliberate Democracy”, James Fishkin, già nel 1992 ne aveva codificato i fini e gli strumenti, quelli al tempo disponibili. La maggiore novità era quella dei “deliberative opinion poll”, in cui un gruppo di cittadini, estratti casualmente dalle liste elettorali e rappresentativi della popolazione (come si fa per i sondaggi), venivano incaricati di studiare uno specifico problema (quasi esclusivamente di natura locale), confrontando le diverse soluzioni ed esprimendo un proprio parere ai decisori politici e, naturalmente, all’opinione pubblica. L’intento era quello di supportare le decisioni dall’alto con una deliberazione dal basso. L’iniziativa non ebbe un grande successo con queste modalità (perché la gente non ha tempo; non ha le competenze specifiche che si richiedono e, naturalmente, le stesse competenze non sono distribuite in maniera equilibrata tra le varie componenti della società). Tuttavia, fatta salva la difficoltà pratica di condurre questo tipo di innovazioni, la consultazione referendaria è diventata una consuetudine in California. La deliberazione dal basso, naturalmente, non assicura saggezza e neppure che si identifichino sempre, o nella maggior parte dei casi, le soluzioni migliori. La concezione binaria della consultazione, la spinta emotiva ad appoggiare la soluzione che sollecita le pulsazioni più forti, la difficoltà a considerare il quadro complessivo di fronte a una questione particolare, hanno creato molti problemi “ex post” rispetto al singolo referendum e anche rispetto alla “maggioranza silente” che ha difficoltà a contrastare sul piano della comunicazione le minoranze particolarmente attive. E tuttavia nessuno pensa che si debba far a meno dell’intervento diretto dei cittadini su questioni ben identificate.
Dove sta il punto di equilibrio? O, meglio, come si fa a innestare una stagione di partecipazione politica popolare alimentata dal digitale, senza che questo renda ingovernabile il Paese (nel momento in cui ci fossero infiniti ricorsi ai referendum) o sia messa in discussione la centralità della rappresentatività della nostra democrazia?
Sicuramente i referendum, o comunque la partecipazione diretta e deliberante dei cittadini, nella sfera locale è certamente promettente. Nella dimensione locale alcuni problemi sono più facilmente circoscrivibili; si possono più facilmente proporre soluzioni alternative (ad esempio, su dove/come allocare una parte del bilancio dell’ente locale); si possono interpellare i cittadini anche “dall’alto”, cioè proponendo loro specifici quesiti su cui possano esprimersi. Un sindaco può tranquillamente chiedere un parere su una decisione specifica. Perché non utilizzare questi strumenti immediati e facili per agevolare l’amministrazione di una città?
Più complicate sono le questioni che vengono sollevate al livello nazionale. Anche le questioni di principio, o di tipo etico, che sembrano essere semplici nella scelta su come schierarsi, in realtà non lo sono abbastanza: c’è sempre una complessità inattesa della realtà; un’articolazione delle deliberazioni conseguenti; un tenere insieme una norma abrogata e il resto della legislazione, che richiedono uno sforzo legislativo, una congruenza e coerenza della norma abrogata con il resto delle leggi. Qui potrebbe essere utile stabilire un congruo numero di giorni, dopo la presentazione delle firme, affinché il Parlamento legiferi sul tema posto dal referendum. È vero che questo già oggi è possibile, ma una norma che inserisca formalmente questo momento nel processo che porta al referendum, darebbe un’ulteriore motivazione a intervenire prima che la consultazione si svolga.
Il “potere della folla” che nasce dalla fisica sociale creata dalla comunicazione digitale può essere un beneficio per la democrazia, se correttamente inquadrato nell’architettura istituzionale attuale, perché una democrazia con il 100% di delega è inauspicabile (può essere molto più ricca se vi partecipano, in vario modo, più persone), così come una democrazia a zero delega è impossibile (o è un incubo), ma ci si può collocare in posizioni intermedie. La palestra migliore è quella dei comuni e delle regioni, dove la gente conosce di più quello su cui è chiamata a decidere e la riavvicinerebbe alla politica, dandogli anche potere e non solo rappresentanza.