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    Perchè i sondaggi sbagliano, la loro verità e la scoperta del pensiero politico della gente

    Perchè i sondaggi sbagliano, la loro verità e la scoperta del pensiero politico della gente

    Alla fine ha dovuto scrivere un lungo articolo, puntuale, pungente, serratissimo, per dimostrare che no, i sondaggi non sono da buttare e che servono a tanto, a tantissimo, anzi a (quasi) tutto. Lui è Nate Silver, il più famoso guru delle previsioni elettorali, anche se lui stesso non si definisce un pollster, cioè un sondaggista, però da statistico usa i risultati dei sondaggi per fare le stime elettorale, e perciò se la materia prima (il sondaggio) non funziona, non funzionerà neppure il modello.

    Silver, che è il più bravo di tutti, e in tutti i casi, si era sbagliato – come tutti – sull’esisto delle precedenti presidenziali americane, avendo previsto la vittoria di Hillary Clinton. Questa volta l’errore è stato meno devastante, in termini politici, avendo comunque previsto Biden vincitore, ma in termini di stima statistica l’errore è stato rilevante: aveva previsto 51,8% contro 43,3% a favore di Biden, e invece (anche se lo scrutinio quando scriviamo non è ancora concluso) il risultato è stato 50,8% contro il 47,4%. Si aspettavano 8 punti e mezzo di distacco, ma sono (solo) 3,4. Data la natura delle elezioni americane, l’errore più grave è però di aver sbagliato Florida e North Carolina nell’attribuzione della vittoria in quei due stati fra i più decisivi nelle ultime elezioni americane.

    In sostanza, Nate Silver sostiene che i sondaggi (e le sue previsioni) sono tuttora uno strumento formidabile, e che gli errori stanno nella caratteristica necessariamente probabilistica (e non certo matematica) di queste stime (è la loro natura) e che l’errore - semmai- è della stampa che dà una interpretazione dei sondaggi come pretesa di certezza sui risultati, piuttosto che come stima dell’orientamento dell’elettorato. Infatti, parla di hints, cioè di allusioni, approssimazioni, suggestioni sull’opinione politica popolare, non di certezze.

    Teniamo conto che nella storia americana c’è una formidabile tradizione di studi e attività nel campo delle previsioni politiche. I leggendari coniugi Whitaker e Baxter già nel 1934 fondarono la prima società di consulenza politica e riuscirono a far vincere i Repubblicani in un sacco di elezioni, collegando advertisement e studio dell’opinione pubblica. Negli stessi anni George Gallup, fondatore della mitica azienda di sondaggi, sulla base di un avveniristico lavoro di Walter Lippmann di qualche anno prima (Public Opinion) creò appunto la Gallup che stima da sempre ogni aspetto della vita americana. Perciò siamo nel cuore della questione: se e come si possono prevedere i risultati elettorali.

    Lasciamo però Nate Silver (e i suoi antesignani) e domandiamoci, sulla scia di questa tradizione formidabile, che cosa significano i sondaggi, cioè quello che davvero ci fanno capire; perché non funzionano, e quando, invece, sono molto utili. Vedremo anche come oggi siano disponibili altre tecnologie e metodologie che ci fanno capire molto di più dei sondaggi il pensiero politico della gente comune. Sembra un ossimoro: coma fa la gente comune ad avere un pensiero politico? Inesorabilmente ce l’ha. E vedremo quale e come, inesorabilmente, pesi più di ogni altra cosa; ma andiamo con ordine.

    Ci sono alcuni problemi rispetto alla capacità (e possibilità) che i sondaggi stimino con certezza i risultati elettorali. Il primo riguarda la loro stessa natura di simulazione della realtà, soprattutto quando sono lontani dalla effettiva data del voto. Il sondaggio simula qualcosa (il voto) che non c’è. Si chiede per chi voterebbe una persona in un momento in cui (parliamo di sondaggi svolti lontani dalla effettiva convocazione delle elezioni) non ci sono elezioni, non ci sono candidati e non c’è alcuna conoscenza (perché impossibile) del contesto competitivo: quali sono le liste presentate, quali i leader in competizione e con quali strategie, ecc. È un po’ come domandare a febbraio cosa si farà a Natale.

    Questo sarebbe ancora poco, se chi è chiamato a rispondere avesse, come per il Natale, una cognizione esatta dell’evento, ma non è così. Secondo una indagine ISTAT svolta ogni anno (La Partecipazione Politica in Italia, giugno 2020) solo il 15,0% degli Italiani segue la politica, nel senso di avere un’attenzione costante ai dibattiti e alle trasmissioni politiche. Quindi, probabilmente, questo 15,0% sarebbe in grado, in qualunque momento dell’anno, di dare una risposta adeguata alla domanda “per chi voterebbe domani, se ci fossero elezioni politiche?”, ma il restante 85,0% darebbe la risposta più immediata, la prima che viene in mente, pressato dall’intervistatore, per di più in pochi secondi, per dare comunque una risposta. Penserà al suo ultimo voto, penserà a ciò che al momento lo colpisce di più, penserà a qualunque cosa, ma quell’evento (la risposta al sondaggio) svanirà un secondo dopo che la telefonata si è conclusa. Non è un commitment, non è un impegno, è la risposta di un momento.

    A mano a mano che ci si avvicina al momento reale del voto, il sondaggio sarà più affidabile, non perché le tecniche statistiche siano migliori, ma semplicemente perché l’argomento a cui si chiede di rispondere diventa d’attualità per chi risponde (per chi domanda è sempre d’attualità). Insomma, a mano a mano che il Natale si avvicina, tutti abbiamo un’idea migliore di cosa faremo a Natale.

    D’altro canto le contro-prove sono impossibili, cioè non si potrà mai verificare se in quel momento quella sia la verità o meno. La verità è inconoscibile, perché non è una stima di un evento vero, ma una sua simulazione. Perciò, quando i risultati poi non corrispondono alla previsione, si dice che la gente ha cambiato idea; che il vincitore “ha recuperato negli ultimi giorni”; che l’evento x o y delle ultime due settimane ha curvato le intenzioni di voto. Semplicemente non lo sappiamo. Certo è – e questo ha a che fare con l’interesse verso le elezioni che diventa effettivo solo… durante le elezioni – che numerose indagini, alcune fatte da chi scrive, dimostrano che una parte consistente dell’elettorato ha deciso (o cambiato idea) proprio nell’ultima settimana del voto; e una percentuale non del tutto irrilevante (tra il 5 e il 7%), ha deciso per chi votare proprio il giorno delle elezioni. Questo significa che la stima prima delle elezioni è impossibile, almeno come previsione certa dei risultati (a meno di constatare distanze enormi tra i competitors).

    Diciamola con maggiore precisione tecnica: un buon sondaggio ha un margine di errore del 3% o inferiore, però nessuno assicura quanto sia permanente l’orientamento di chi risponde e una parte, molto consistente, semplicemente non ci pensa (il 23% della popolazione italiana non ha alcuna idea della politica, e semmai se ne fa una – se ne ha voglia – nell’approssimarsi delle elezioni).

    Ci sono poi problemi di natura statistica legati all’esecuzione stessa dei sondaggi. Secondo uno studio americano c’è una caduta netta delle persone che rispondono alle interviste: nel 1997 rispondeva alle telefonate il 36%, adesso risponde il 6%. Perciò, mentre prima bastava replicare le telefonate di un po’ più di un terzo, adesso bisogna farne 10 (quando bastano), per ottenere un’intervista. Questo, in qualche modo, “disturba” la naturale conduzione dell’indagine. Inoltre, le interviste sono passate in parte sui cellulari, ma questo – a parte gli eccessivi problemi di privacy indotti dal legislatore – rende ancora più difficoltoso fare le interviste. Si è passati al web, ma qualche volta a rispondere sono persone coinvolte anche in altre ricerche. Statisticamente il metodo è sempre ineccepibile, ma qualcosa “disturba” l’assoluta casualità della persona intervistata.

    Il punto centrale non è però quello statistico o delle modalità esecutive dei sondaggi, a cui comunque c’è modo di rispondere brillantemente, ma il significato e il potere esplicativo dei sondaggi rispetto alle opinioni politiche della gente. Vediamo, allora, cosa ci possono dire davvero i sondaggi: ci danno una misura della notorietà delle persone, cioè dei leader e dei partiti e della percezione al momento del loro gradimento (quando poi i media presentano i risultati preferiscono non conteggiare le risposte di quelli che non rispondono e non sanno, perciò se il 70% non conosce o non si esprime sul leader A e il 30% risponde di gradirlo al massimo, la percezione indotta è che la popolazione preferisce al massimo il leader A). I sondaggi ci dicono molto su come sta andando la campagna elettorale (quanti hanno consapevolezza di un singolo messaggio politico, della posizione di un leader ecc.). I sondaggi ci dicono molto di come le precedenti opinioni sono distribuite per classe di età, per genere e per altre variabili fondamentali con cui può essere divisa una popolazione.

    I sondaggi hanno più difficoltà a spiegare il perché delle scelte di preferenza degli intervistati. Questo succede talvolta anche perché il committente, spesso il soggetto politico medesimo, vuole avere solo “il dato”, poi provvederà lui a spiegarselo, e a spiegarlo agli altri, secondo la sua prospettiva, o talvolta semplicemente secondo il suo whisful thinking. L’analisi politica di solito disegna (quando è in grado di farla) la realtà che c’è, le percezioni che ci sono, mentre la politica è il regno di quello che dovrebbe essere, o di quello che si vuole che sia. In questa ambiguità naviga l’analisi politica.

    In realtà quello che un leader politico avrebbe bisogno di sapere (e non è detto che non lo faccia, ovviamente) è perché la gente sia orientata nel modo in cui è orientata, e da quello muoversi con l’obiettivo di cambiare a proprio favore quell’orientamento. Allora domandiamoci di cos’è fatta oggi la natura che muove l’interesse politico. Perde tempo chi pensa che si confrontino programmi, anzi che il Re della politica sia ancora la razionalità. O meglio, la “scoperta” è che la stessa razionalità è oggi il risultato dell’emozione. La razionalità condensa e rappresenta qualcosa che però nasce da un’altra parte, cioè nella parte emotiva. Siamo abituati a pensare alla componente emotiva umana come la parte “debole” della nostra natura, o come la sua parte ancillare (“L’errore di Cartesio”), ma tutto che quello che si va scoprendo ci indica che la parte emotiva muove quella razionale e non viceversa. Detto in altre parole, rendiamo razionale (cioè presentabile al mondo) qualcosa che viene mosso da moventi di altra natura. Il primo del quale è l’identità. Si vota più per identità che per razionalità.

    Se così è, allora diventa fondamentale cogliere, capire, interpretare le emozioni della gente, e oggi le emozioni della gente si esprimono in grandissima parte sui social media, e in particolare su facebook. Sempre indagine ISTAT, il 42,2% della popolazione si informa sulla politica su internet; livello che arriva al 70% per quanti hanno meno di 24 anni, al 71% fra quanti hanno tra i 25 e i 34 anni e al 63% fino a 44 anni. Sostanzialmente bisogna superare i 54 anni per abbassare la quota parte di internet sotto la soglia del 50%. Dove altro si vuole trovare le emozioni? Questo perché, com’è noto a tutti, su internet si interagisce direttamente e con tv e giornali si reagisce solo non comprando un giornale o non vedendo una trasmissione.

    Esistono delle tecnologie che riescono a raccogliere centinaia di migliaia di commenti su internet (chi scrive le ha utilizzate in varie occasioni) ed estrarne le emozioni sia in relazione agli argomenti del dibattito pubblico, sia in relazione al singolo leader. In questo caso le opinioni sono “libere”, nel senso che sono espressione spontanea di quel che in un dato momento muove la gente, cioè la porta a scrivere qualcosa, a commentare, mentre nei sondaggi le risposte sono già precodificate, in qualche modo suonano astratte. Se un argomento non interessa nessuno, nessuno ne parlerà spontaneamente; ma se quell’argomento è una delle risposte previste nel questionario è possibile che – data la sollecitazione – qualcuno ne indichi l’importanza; ma non ci stava pensando prima, e probabilmente, non ci penserà neppure dopo. Queste analisi sulle emozioni disegnano la mappa politica spontanea, così come nasce da ciò che muove la gente a intervenire. In sostanza, cerca di rispondere ai perché che rimangono sospesi nel sondaggio.

    Conclusione, la materia politica è la più complessa di tutte, perché agisce su ogni argomento (qualunque cosa può diventare “politica”), coltiva ogni emozione (odio, amore, gioia, ecc. sono sentimenti primordiali che nella politica si trovano in grande abbondanza) e condensa tutto (o cerca di farlo) con la razionalità, cioè con la concreta gestione del denaro pubblico, cioè del denaro che ciascuno rende allo stato. Quest’ultimo aspetto non è da trascurare, perché in qualche modo è poi l’altra faccia, quella necessariamente razionale della politica.

    Perciò i sondaggi sono una parte della batteria di cui si può disporre per fotografare l’attimo (per quanto fuggente) dell’orientamento elettorale di una popolazione; altri strumenti ci aiutano a capire l’anima politica della gente, quello che muove profondamente il loro agire; l’analisi politica propriamente detta correla tutto questo con l’offerta politica, cioè le strategie dei singoli partiti e dei singoli leader. Se è vero che, come dice Nate Silver, per chi vuole certezze “polls aren’t to give you that”, o come prima di lui, Clint Eastwood diceva rispetto ai casi della vita, “se vuoi certezze, comprati un tostapane”, un insieme di strumenti ci può dare la possibilità di capire e interpretare il pensiero politico della gente, neanche quello con l’assoluta certezza, ma almeno con la consapevolezza certezza di arrivare al massimo possibile dove è consentito arrivare.

    Bio

    Antonio PreitiEconomista. Docente all’Università di Firenze. Master in Economia dello Sviluppo, Laurea in Scienze Economiche e Sociali. E’ cresciuto al Censis, responsabile di Sociometrica, è consulente strategico.

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