“Roma for humanity” è la spettacolare scritta comparsa alla sommità del Colosseo, davanti agli ispettori della Bie (Bureau international des expositions), per sancire, anche sul piano dello show, la grande determinazione della città a ospitare l’edizione 2030 dell’Expo mondiale.
Se la brillante luce della scritta sollecita i nostri occhi ad aprirsi alla bellissima avventura della sua candidatura, il contenuto della frase lavora ancora più in profondità, perché ci dice cosa oggi (ancora e ancora, dopo una storia millenaria) Roma può dire/dare al mondo, anzi all’umanità, dove l’umano è un concetto ancora più grande e più eclatante del mondo fisico.
Roma con tutti i suoi difetti; le incoerenze interne (volere l’Expo e non il termovalorizzatore, ad esempio) e l’infinita rincorsa, accidentata, verso il suo destino, ha intrecciato nella sua storia la cultura greco-romana con il cristianesimo creando un ventaglio di valori universali di cui il mondo ha ancora bisogno.
Se Bloom, un grande critico della letteratura, sostiene che Shakespeare abbia ‘inventato’ l’uomo, perché non si è limitato a “riprodurre la natura", ma ha trovato i percorsi e i moventi della sua psiche, si può sostenere che Roma abbia ‘inventato’ la società moderna, senza riprodurre le tribù, con il diritto per regolare i conflitti e - aggiunta del messaggio cristiano - l’irriducibilità (e il valore) della persona umana come misura di tutte le cose. Sappiamo come, ancora oggi, ci sono stati che non rispettano il diritto per regolare i conflitti, a cominciare dalla Russia, e sappiamo come ci sono stati che non rispettano l’uguaglianza fra i suoi cittadini.
Questi concetti sono fondamentali nel momento in cui il competitor di Roma più accreditato per l’Expo è Ryadh, la capitale dell’Arabia Saudita, dove i concetti di democrazia e di uguaglianza non sono proprio di casa. C’è anche l’idea di città che le differenzia: a Riyad è in costruzione, proprio per il 2030, una sorta di città nella città, New Murabba, di 19 chilometri quadrati, una sorta di isola nel deserto, dove ci saranno 104 mila unità abitative e un cubo dorato (il Mukaab), che dovrebbe rappresentare la prima destinazione turistica (9mila camere alberghiere) totalmente “immersiva”, cioè digitalizzata, con grande uso della realtà virtuale, del metaverso (qualunque cosa significhi) e totalmente (o quasi) regolata dagli algoritmi.
Più che la perfezione, che notoriamente non è di questo mondo, e perciò neppure delle sue città, questo progetto ci fa venire in mente l’universo distopico e fantasioso (al tempo), ma oggi più vicino alla realtà, di Huxley (Il Mondo Nuovo). Probabilmente non sarà così, magari sarà tutt’altro. Vedremo. Ma l’idea che una città possa essere inventata “ex-novo”, come un atto che prescinde dalla storia, dalle stratificazioni che le hanno determinate e che possa essere ancorata solo, o principalmente, al principio della “funzionalità”, come se una città fosse una macchina e non lo specchio (o il teatro, direbbe Shakespeare) delle relazioni umane, è davvero l’opposto di Roma. Allora, ci chiediamo cosa comunichi all’umanità l’idea che tutto (storia, identità, memoria) possa essere cancellato sull’altare del “funzionamento ottimale” delle cose, e cosa comunichi l’idea di Roma che tutto debba essere ancorato alla primazia della persona, allo sviluppo delle sue (imperfette) potenzialità, in una parola alla sua umanità? La differenza è un abisso.