Il problema delle periferie a Roma non è un problema laterale, ma è il problema di Roma. Il problema centrale, quello che incide sulla maggior parte della popolazione e sulla maggior parte della superficie del Comune. Un problema materiale, un problema morale, il problema dei problemi.
Ho usato il plurale perché dire oggi “periferia” a Roma non significa molto. Ci sono tante periferie, alcune sono sinonimo di degrado e di illecito; altre sono periferie solo in senso fisico; altre lo sono per la qualità della vita, e alcune, semplicemente, per lo stile di vita.
Come affrontare il problema? Se le periferie sono tante e diverse, occorre avere un quadro chiaro della situazione, delle sue differenze e comprenderle in una strategia unitaria con però decisioni e politiche diversificate. Qualche dato può servire: circa il 25% della popolazione vive oltre il grande raccordo anulare (la somma dei primi due municipi non arriva al 10%). Ci sono interi quartieri da 20mila abitanti che vivono dentro il raccordo in una situazione di degrado diffuso e profondo. C’è una continuità territoriale, edilizia, residenziale tra quartieri dentro il raccordo, estensioni oltre il raccordo e altre ancora che si prolungano fin oltre il confine comunale.
Ci sono norme, usi e congegni amministrativi che addirittura sembrano pensati apposta per perpetuare il disagio. Consideriamo quanti vivono con affitti minimi nell’edilizia popolare: per farlo devono avere ovviamente un reddito basso o inesistente o vivere altre situazioni molto gravi: è evidente che se emergono da quelle circostanze sfortunate debbano lasciare casa, e saranno sostituite da altre nella medesima situazione. E’ il modo perfetto per costruire i ghetti. Bisogna ibridare le tipologie di residenti, piuttosto, altrimenti il disagio sembra una condanna eterna e non uno status temporaneo.
La scoperta, se non si ha modo di frequentarle, di vedere qualche film o di sentire i rapper più significativi, è che queste periferie esprimono una grande vitalità, in tanti modi, alcuni non commendevoli, ma altri molto creativi, perché sono zone piene di vita, non sono il deserto. O meglio, sono il deserto rispetto alla presenza di ciò che fa di una città una città (negozi, cinema, teatri, scuole, strade pulite e ordinate, uffici, ecc.), ma non sono un deserto psicologico, un deserto delle intenzioni o delle ambizioni. Basta leggere le cose scritte dall’urbanista Carlo Cellamare per capire quanta ricchezza, quanta varietà e quanta potenzialità ci sia anche nelle situazioni più difficili.
Adesso pensiamo a come intervenire: facciamo una mappa (che non c’è ancora) degli edifici abbandonati, la calamita più micidiale dell’illegalità; troviamo regole e qualche decisione choc per espungere l’epicentro del problema più drammatico, quello della casa, in qualunque tipo di periferia (per altro a Roma un’abitazione su tre nasce abusiva).
Riusciamo a sostenere quelle iniziative di auto-organizzazione che possono produrre lavoro (da quello agricolo a quello delle industrie audio-visive)? Riusciamo a prosciugare l’area grigia tra legalità e illegalità che oggi, invece, prospera?
Dobbiamo distinguere i bisogni di qualità della vita, per chi vive in appartamenti moderni e accoglienti, che hanno il deserto appena fuori l’uscio e di chi abita in baracche o poco più, con l’inferno sia dentro che fuori. E poi c’è il lavoro, l’unico elemento che può innescare meccanismi positivi sia dentro che fuori le pareti di casa. Bisogna stare dentro le cose, umilmente, cercando di capire una realtà frammentata, confusa e vitale e poi intervenire con appropriatezza, con misure esatte, efficaci e condivise. Non chiamiamole più neppure periferie, chiamiamole Roma.